Il sommergibile Inter

Roberto Beccantini21 ottobre 2012

Ho studiato la prima Inter di Palacio titolare (gran gol). Al Catania manca un rigore, netto. L’eventuale trasformazione avrebbe sancito l’uno a uno (30’ della ripresa). Non incanta, l’Inter. Ma non va più in barca come a inizio stagione. E ha dieci punti in più di un anno fa. A questi livelli, inoltre, Cassano può fare la differenza, e la fa: già cinque, le reti.

La musica è cambiata dopo il k.o. casalingo con il Siena. Stramaccioni è passato a tre, in difesa. Nessun dogma, però. Il Catania schiera il tridente? Ecco Obi sulla linea, o quasi, di Ranocchia, Samuel e Juan Jesus. Non dico che l’infortunio di Sneijder abbia agevolato scelte cruciali, ma insomma. Gasperini e Ranieri avevano lanciato l’allarme: la squadra, «questa» squadra, non regge tre punte. Stramaccioni ci ha sbattuto la testa, anche lui, salvo poi uscirne in bellezza (come tappo, non ancora come vino). Quattro vittorie di fila, un solo gol al passivo. Nel dettaglio: 2-0 al Chievo, 2-1 alla Fiorentina, 1-0 al Milan, 2-0 al Catania. Ranieri arrivò a sette, poi crollò.

Credo che il modello di Stramaccioni sia il Napoli di Maradona. Non i singoli, che discorsi, e tanto meno «lui»: l’impianto, la struttura. Dietro a Maradona, Careca e Carnevale ringhiavano sette cani da guardia. Dietro a Milito, Cassano e Palacio, idem. Questa, almeno, mi sembra l’idea.

Inter e Lazio sono le uniche a non aver mai pareggiato. Se ricordate, la prima Inter di Stramaccioni perdeva sempre in casa e vinceva sempre fuori. L’equilibrio è il grande obiettivo, la grande utopia. Ranocchia cresce, serve più qualità in cabina di regìa, piatto forte della Juventus. L’Inter ci deve ancora tante risposte, ma nel frattempo è lì, a quattro passi dalla cattedra. Con i suoi limiti, con il suo navigare ambiguo, a strappi, ora sopra ora sotto le esigenze. Come un sommergibile.

Al di là dei pianti

Roberto Beccantini20 ottobre 2012

Episodi, d’accordo. Ma sempre meglio gli episodi dei lamenti, delle illazioni, dei sospetti cuciti nelle sartorie di Posillipo. Quando la Juventus è passata oltre il Napoli, erano fuori quattro titolari: Buffon e Vucinic dall’inizio, Vidal e Asamoah da un pugno di minuti. Il Napoli ha colpito una traversa, con Cavani, e ha sacrificato Hamsik addosso a Pirlo. Da Mazzarri mi aspettavo qualche trovata, non la gestione dello zero a zero.

Caceres, Pogba: hanno deciso due riserve. Si dia a Marotta quello che è di Marotta. Se l’Europa è un altro pianeta, in campionato la Juventus non perde da 47 partite, e marcia a meno undici dal record del Milan. La sfida con il Napoli è stata modesta, sterile, un pelo sopra (ma proprio un pelo) il recente derby di San Siro. Nessun dubbio che la Juventus sia la squadra più squadra: avesse in attacco un Golìa all’altezza del suo ultimo David (Trezeguet, e chi se no?), potrebbe alzare la voce anche in Champions. Potrebbe.

Il pareggio sembrava l’approdo più tranquillo ed equo. Non è una colpa buttarsi sugli episodi; appartiene al repertorio e all’istinto delle Grandi, può eccitare la sorte. In chiave scudetto, non cambia nulla. Cosa volete che siano tre punti di distacco dopo otto giornate? Certo, non può non impressionare il passo della Signora, 22 punti su 24, miglior attacco e miglior difesa. E tre allenatori, ormai, a scambiarsi il timone: dopo Conte, Carrera; e dopo Carrera, Alessio.

Ora che tutti la conoscono meglio, la Juventus deve trovare il modo per confondere le tracce. Il Napoli è vicino al salto di qualità ma deve calibrare meglio la rincorsa. L’arbitro, Damato, ha diretto a spanne: non ha inciso, non mi è piaciuto. Per una volta, ebbene sì, ho visto una Juventus cinica, senza attacco (non sono Schettino, non abbandono Giovinco), salvata dai soldati Ryan degli altri reparti. Soldati Ryan per modo di dire.

Passo avanti

Roberto Beccantini16 ottobre 2012

E’ stata Italia-Danimarca per novantaquattro minuti. Prima e dopo, non poteva e non potrà essere che Juventus-Napoli. Sia chiaro: «non poteva» in un Paese come il nostro, dedito al culto del complotto e allo spaccio del sospetto. Dove lo trovate un presidente (De Laurentiis, Napoli) che telefona a Prandelli chiedendo lumi sugli allenamenti troppo snob riservati ai convocati bianconeri quando la stessa Juventus, dopo la doppietta Bulgaria-Malta, aveva invitato il ct a farli lavorare di più?

Per tacere della staffetta Buffon-De Sanctis, romanzatissima. La partita, quella, è stata scoppiettante, divertente, con le difese, compresa la nostra, alla mercé degli attacchi. Questa volta, sono stati gli avversari ad alzarsi dai blocchi come lo facemmo noi a Yerevan. Se non hanno segnato, merito (anche) di De Sanctis e del torpore aereo di Bendtner.

Piano piano, ci siamo presi la partita. Non sono uno di quelli che sbavano dietro Montolivo, ma dal derby a oggi ha cambiato marcia, raccogliendo i numeri sparsi. Ha 27 anni, è una mezzala camuffata da trequartista: abbasso gli alibi, dipende da lui, solo da lui.

Gol a parte, Balotelli ha martellato ai fianchi i danesi, lavoro dal quale è affiorato il talento che, spesso, i nervi soffocano. E poi il piatto fisso: cross di Pirlo, testa di De Rossi; al Meazza come in Armenia. De Rossi, già: urge un colloquio con Zeman. Anche per Osvaldo, espulso in avvio di ripresa. Era uno degli epurati, scommetto che oggi Zeman avrà meno torto. Il gol di Kvist aveva riaperto la porta, Mario l’ha richiusa. Tornando per un attimo al Pirlo sbuffante: vogliamo parlare del lancio a Balotelli?

Non era facile, in dieci, ma costretta a far la partita la Danimarca si è arresa docile docile. Anche perché la sofferenza è la nostra seconda pelle. E poi perché San Siro è San Siro.